Se, ancora in fasce, non avessi contratto il morbo “venatico”, oggi come sarei?
Mi pongo spesso questa domanda perché penso che la passione per la caccia abbia inciso profondamente sul mio modo di concepire ed affrontare la vita, come ritengo sia capitato anche a tutti voi lettori della rivista.
La caccia è passione, è malattia, è tradizione, è cultura, è poesia ognuno può definirla come desidera, ma un unico stile di vita caratterizza noi cacciatori e si traduce in uno stesso sentire, in un’unica emozione per l’attività venatoria.
Detesto definirla uno sport, in quanto rappresenta una vera e propria impronta genetica capace di condizionare per sempre la mia persona, il mio modo di pensare e di conseguenza quello di agire.
Chi, come me è affetto da questo morbo, quindi tutti voi, capisce benissimo a cosa mi riferisco. Respiriamo “caccia” tutto l’anno e non solo in quei 5 mesi dove ci è fisicamente permesso di dar sfogo alla nostra passione.
Noi cacciatori nel corso di un giorno volgiamo il naso verso il cielo mille volte di più di chi a caccia non va. Scrutiamo il cielo attenti alle variazioni climatiche ed alle variazioni meteorologiche perché influenzano la presenza e la salute dei nostri amati selvatici.
Accade che quando un selvatico beffardo attraversa il nostro campo visivo restiamo stupiti, pieni di meraviglia come i bambini davanti ad un appetitoso gelato.
Pernice, tortora o cinghiale poco importa, fatto sta che un brivido ci corre lungo la schiena e gli occhi poche volte riescono a celare il nostro stato d’animo.
di Emanuele Farneti